Questa sezione presenta recensioni e segnalazioni di opere artistiche e culturali dedicate o incentrate sullo sport: libri, film, arti visive.
Il diritto di non essere campioni
Dopo aver letto la pregevole serie di articoli de “La nostra storia”, curata magistralmente dal nostro Presidente, pensavo di conoscere abbastanza del Panathlon, finché, quasi casualmente, sono “inciampato” sulla “Carta dei doveri del genitore nello sport” e mi sono sorpreso di non conoscerla per niente.
In realtà l’incontro ravvicinato è avvenuto grazie a due libri che cercherò, in seguito, di “raccontarvi”.
Prima, però, vorrei porre l’attenzione su un fenomeno che interessa i bambini e la loro quotidiana pratica sportiva.
Premesso che siamo tutti d'accordo nel dire che lo sport da piccoli faccia bene, mi sono chiesto se oggi esiste ancora la possibilità di praticare una disciplina sportiva senza l’ansia di diventare per forza un campione?
Se leggiamo la carta dei diritti dell’Unesco del 1992, ci sarebbe da rimanere rassicurati sul fatto che tutti i bambini possano fare sport senza per forza diventare mini campioncini.
L’Unesco, infatti, sancisce che ogni bambino ha il diritto di divertirsi, affermando pure che: «Il programma di allenamento deve essere ben equilibrato e consentire momenti di recupero. Nei periodi di congedo scolastico l'allenatore rispetta la necessità di riposare, oltre il fisico, anche la mente e non impone una quantità eccessiva di allenamento. Il bambino va considerato non solo in virtù di una buona competenza sportiva e di una qualsiasi eccellenza dei suoi risultati, ma anche e soprattutto con i suoi limiti e la sua inesperienza».
C'è spazio per tutti, insomma, per chi è bravo e per chi lo è meno. Senza che ciò debba diventare un problema: né per le società, né per i genitori. Perché per i bambini non lo è per niente.
Questo concetto è riproposto anche nella citata “Carta dei doveri dei genitori nello sport” messa a punto dal Panathlon International, che a un certo punto recita: «Eviterò ai miei figli, fino all'età di 14 anni, pesanti attività agonistiche, salvo discipline formative, privilegiando lo sport ludico e ricreativo. Dirò ai miei figli che per essere bravi sportivi e sentirsi felici nella vita non è necessario diventare dei campioni. Al loro ritorno a casa non chiederò se abbiano vinto o perso ma se si sentano migliori. Né chiederò quanti gol abbiano segnato o subìto o quanti record abbiano battuto, ma se si siano divertiti».
Sono convinto che l'aspetto amatoriale dello sport vada rispettato e diffuso e non snobbato perché aiuta a non esasperare i risultati. Uno sport senza cronometro e senza record da battere ci rende uguali nelle emozioni, perché lo sport non è un valore riservato solo a chi primeggia.
Eterni Secondi. Perdere è un’avventura meravigliosa di Rosario Esposito La Rossa
Provate a convincere chi ha sempre vinto che la sconfitta è in fondo qualcosa di meraviglioso. Provate a sostenere che non essere vincitore talvolta ha maggior valore della vittoria. Insomma, se, come sosteneva Giuseppe Saronni, arrivando secondo non si scrive la storia, è evidente che per imparare a perdere c’è bisogno del libro di Rosario Esposito La Rossa “ Eterni Secondi “ pubblicato da Einaudi nel 2019 in cui l’autore ha raccolto diverse storie meravigliose di “perdenti” dello sport.
Sono le sconfitte di quegli sportivi che hanno perso qualcosa, ma hanno guadagnato, spesso, molto più di una medaglia.
Venti gli uomini e le donne che ben scelgono di non essere primi ma giusti, onesti con se stessi e con il loro prossimo.
Attraverso uno stile narrativo scorrevole, queste storie si prestano a una lettura piacevole e l’attenzione non viene mai meno, fino alla fine.
Il libro racconta di esistenze straordinarie, anche se segnate da una sconfitta, che, invece, si rivelerà una grande opportunità da cogliere per se stessi, ma soprattutto per fare ciò che è giusto per il prossimo.
La grandezza degli atleti protagonisti del libro sta proprio in questo: cogliere la sconfitta come un’avventura, da percorrere sino alla fine, e un’opportunità per lasciar traccia di sé, dei propri valori, della propria unicità.
Campioni, questi, tutti accomunati da una grande determinazione e dall’enorme passione per la propria disciplina sportiva.
In questo libro si legge del coraggio di Luz Long che si oppose a Hitler o della discriminazione ingiusta di cui fu vittima Peter Norman colpevole solo di essere su quel podio di Messico ‘68.
Un libro consigliato per i ragazzi a partire dai 10 anni, ma lo possono leggere anche gli adulti per riscoprire il vero senso della vittoria e per capire che, spesso, PERDERE E’ UN’AVVENTURA MERAVIGLIOSA.
Il libro di Rosario Esposito La Rossa, inoltre, ha ricevuto il Premio Bancarellino 2020, versione dedicata ai libri per ragazzi del Premio Bancarella.
Non Esistono piccoli campioni di Johannes Bückler
Se “Eterni secondi” è un libro per ragazzi, “Non esistono piccoli campioni” è sicuramente un libro per adulti.
Attraverso una scrittura indomabile Johannes Bückler, senza termini superflui, ci presenta la realtà di tante storie, ben 46, molto speciali e tutte dedicate a un interesse collettivo, piuttosto che al vantaggio personale. L’autore le sviluppa secondo un percorso emotivo teso a ispirare buoni propositi e non a compiacersi su se stesse.
Tra le 46 storie, alcune sono notevoli, emozionanti e commoventi, ve ne segnalo qualcuna.
C’è quella di Roger Bannister, il primo atleta a correre il Miglio in meno di 4 minuti, a Oxford, il 6 maggio 1954. Bannister, che nella vita ha svolto la professione di medico, ha dichiarato poco prima della sua scomparsa di non aver mai smesso di correre, per anni ha portato i suoi quattro figli ogni mattina a fare jogging al Kensington Gardens di Londra. Ha continuato, con leggerezza, ad amare la corsa come quando era bambino, senza la febbre della competizione.
Un’altra storia riguarda Giannis Antetokounmpo, figlio di una coppia di nigeriani immigrati clandestinamente in Grecia nel 1992. Giannis e il fratello Thanasis erano molto alti, cominciarono a giocare a basket, ma mai insieme. Perché? Perché possedevano solo un paio di scarpe da gioco.
La storia dell’austriaco Roland Ratzenberg, invece, narra di una carriera da pilota automobilistico con le innumerevoli difficoltà attraversate per rendere concreto il suo sogno. Roland morì, purtroppo, sul circuito di Imola il 30 aprile 1994, durante le qualificazioni della Formula Uno. Nota curiosa e beffarda, Ayrton Senna avrebbe voluto onorare Roland vincendo il Gran Premio di San Marino e lo avrebbe fatto sventolando durante il giro d’onore una bandiera austriaca che si era fatto infilare dentro all’abitacolo della sua Williams poco prima del via. Invece il destino aveva deciso un diverso e ben più tragico epilogo anche per l’asso brasiliano.
La storia più incredibile e per me più commovente è stata quella di Matthew Le Tissier, chiamato Matt Le God. La sua storia è una perfetta alchimia di amore e rispetto nei confronti di chi per sedici anni ha giocato con la stessa maglia, quella del Southampton, nonostante le ricche offerte di vari squadroni. Per anni, un cartello sulla cancellata d’ingresso al “The Dell”, lo storico stadio del Southampton, avvertiva giocatori e supporters avversari: “Benvenuti nella casa di Dio”. Eppure Le Tissier non ha vinto quasi niente, ma, oltre a essere amatissimo, ha compiuto un’impresa epica. Lo storico stadio ultracentenario doveva essere demolito e il 19 maggio 2001 si giocò l’ultima partita contro l’Arsenal. Il “vecchio” Matt in quella stagione non aveva ancora segnato un gol. A un minuto dalla fine, la spettacolare e frizzante partita è ancora inchiodata sul 2-2. Le Tissier, entrato da poco, riceve un pallone con le spalle alla porta, lo controlla, si gira e lo spara all’incrocio dei pali. E’ l’apoteosi generale in un pathos surreale si celebra il miglior addio immaginabile al vecchio “The Dell”. Gol vincente, all’ultimo minuto, nell’ultima gara giocata nel vecchio stadio: cose da “Dio”, ovviamente.
Irina Vladimirovna Karavaeva è invece un’ex ginnasta russa specialista del trampolino elastico, ai Mondiali del 2001 in Danimarca la giuria le assegnò in modo errato la medaglia d’oro davanti all’amica tedesca Anna Dogonadze. Irina fece presente l’errore dei giudici e consegnò la sua medaglia alla seconda classificata. Per questo gesto ricevette il premio International Fair Play dalle mani del Presidente del CIO, Jacques Rogge.
Le Storie sono narrate in prima persona, in un contesto letterario in cui ci si fa l’abitudine, avendo la sensazione di sentire le parole dalla viva voce dei protagonisti. Autentici Campioni che hanno interpretato lo sport come ebbe a dichiarare l’immenso Emil Zatopek. “Un atleta non può correre con i soldi in tasca. Deve correre con la speranza nel cuore e i sogni nella sua testa”.
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(Salvatore Seno)
PANINI – Storia di una Famiglia e di tante figurine - di Maurizio Monego
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Un nome, quello dei Panini – niente a che vedere con i fast foods -, noto a sportivi e collezionisti, un brand conosciuto in tutto il mondo, prodotto italiano di fama come Ferrari e Parmigiano-Reggiano.
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Il libro di Leo Turrini, pubblicato di recente per le edizioni Minerva di Argelato (Bologna), racconta la storia della famiglia che, partendo dal nulla si è inventata imprenditrice di successo creando le raccolte di figurine, di cui la più nota e cara agli sportivi è legata al calcio della serie A italiana.
Mamma Olga, la “mameina” e i suoi otto figli – quattro maschi e quattro femmine – si sono trovati nel 1941 ad affrontare la vita da soli, dopo la prematura morte del capofamiglia Antonio, in piena guerra, a Modena.
Il passaggio “dalla fame alla fama” avvenne a cominciare da una coraggiosa intuizione di Olga che con sacrifici racimolò le 6 mila lire necessarie a rilevare una piccola edicola in centro. A pensarci, un’idea folle, in piena guerra, quando i giornali non si vendevano, dato il pensiero unico dominante imposto dalla dittatura e la poca voglia di spendere quattrini per notizie che erano solo proclami o propaganda. Eppure quel piccolo chiosco fu “come un periscopio puntato sui mutamenti che andavano maturando”. La fine della guerra portò una sete di informazione che solo la carta stampata e la radio potevano soddisfare e la riscoperta del pluralismo. Bisogna immedesimarsi in quegli anni. Leo Turrini lo fa con la maestria di giornalista, corrispondente speciale in 14 Olimpiadi, firma di importanti quotidiani a cominciare dal Resto del Carlino e uno dei massimi esperti di Formula1 da raccontare, lui che nato a Sassuolo, a due passi da Maranello, era cresciuto col suono dei motori del cavallino rampante. Turrini è anche scrittore di libri di successo dedicati a Bartali, Enzo Ferrari, Lucio Battisti, Michael Schumacher e Ayrton Senna.
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“PANINI - Storia di una famiglia e di tante figurine” si snoda a partire da quella condizione di assoluta indigenza attraverso lo spirito di solidarietà di quel nucleo di persone semplici, dove le donne – mogli, cognate, madri – ebbero un ruolo importante non secondario a quello degli uomini. Lo scrigno dei ricordi, aperto due anni fa da Edda, la più piccola dei magnifici otto, rivela molto delle sorelle Veronica, la più anziana, Norma e Maria Luisa. Soprattutto rivela la gioia e la voglia di vivere di tutti loro e della illimitata fiducia nei fratelli. Della povertà dice “non mi pesava, non ci facevo caso. Per una cosa semplice: non avevamo niente. E quando non hai niente, ogni piccola cosa ti sembra un dono del destino o della Provvidenza”.
Dei maschi di famiglia, Turrini descrive il tratto visionario di Giuseppe, il più grande, quello che seppe creare la “dinastia come forma di democrazia allargata, testimonianza di una cultura collettiva che affondava le radici in uno stile di vita orgogliosamente onesto”. Conosciamo Umberto, che quando nel ’45 fu inaugurata l’edicola aveva 17 anni e faceva la spola con Bologna in bicicletta, anche sotto le bombe, per scambiare le rese con i nuovi giornali. Benito appassionato Alfista con spiccata caratteristica di uomo-squadra, come dimostrò anche nel 1986 quando da dirigente della Panini Modena di Velasco conquistò lo scudetto della pallavolo che da alcuni anni mancava a Modena. Franco Cosimo, il più piccolo, quello colto, impiegato di banca, ricordato come “l’editore della bellezza”. E poi i figli, i nipoti e le nipoti, fino ad arrivare al numero di 84 eredi, che consigliò la vendita dell’azienda (1988) dietro assicurazione che continuasse nel nome e con le lavoratrici e i lavoratori che l’avevano resa mondiale.
Non mancano nel libro i lampi delle idee che portarono a realizzare tante raccolte seguendo le novità del mondo, come la conquista dello spazio, ad esempio. Quelle “stampine” sapevano sempre interpretare il gusto per un collezionismo semplice e la voglia di partecipare, in qualche modo, a quegli eventi, come accadde per le celebrazioni dell’Unità d’Italia.
Il libro è la storia di “un’Italia che non aveva paura di sognare. L’Italia generosa e coraggiosa della seconda metà del Novecento” come riportato nel risvolto di copertina. È la storia di “un’avventura meravigliosa di una dinastia che si è fatta brand sempre conservando un nobile attaccamento alle radici”.
Ci sono poi i racconti delle tante raccolte di figurine che messe in fila formerebbero un nastro di lunghezza almeno pari alla distanza dalla Terra alla Luna e ritorno.
Le pagine scorrono con l’ironia e la leggerezza che Turrini sa dare, con aneddoti e leggende, dal “Feroce Saladino” all’introvabile figurina di Pizzaballa, tra citazioni di Lucio Dalla, di Lucio Battisti, di Italo Calvino formando un puzzle di ammirevole umanità.
Buona lettura.
M.M.
OPERA SENZA AUTORE O PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE
di Salvatore Seno
Quando nella primavera del 2020 ho intrapreso la lettura de “La partita-romanzo di Italia Brasile” di Piero Trellini, non sapevo ancora che il libro sarebbe stato selezionato per il concorso letterario “Bancarella Sport” edizione nr. 57.
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L’Italia si era qualificata a fatica alla seconda fase dei Campionati mondiali di calcio del 1982 che venne disputata all’interno di soli quattro stadi. Due erano stadi famosi e carichi di pathos: il Santiago Bernabeu di Madrid e il Nou Camp di Barcellona. Il terzo, il Vicente Calderon di Madrid, lo era quasi. Il quarto era invece uno stadio quasi sconosciuto, situato nella zona nord di Barcellona. Era uno stadio piuttosto vecchiotto già all’epoca poiché l’avevano costruito nel 1923, era il campo della seconda squadra di Barcellona, l’Espanyol, e si chiamava con il nome del quartiere che lo ospitava: Sarria.
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Nel 2012, in occasione di un viaggio a Barcellona, ho cercato di individuare il palcoscenico dove era andata in scena “La partita”, ma ho trovato solo un Centro Commerciale e indicazioni vaghe di dove si estendesse, anche perché la fama del Sarria è tutta concentrata sulla settimana che va dal 29 giugno al 5 luglio del 1982, insomma come quei luoghi la cui esistenza scorre insignificante per secoli e che improvvisamente diventano il “centro del mondo” per un solo avvenimento particolare.
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Confesso di aver chiuso gli occhi e di immaginare cosa fosse successo lì in quei 90 minuti che segnarono nel bene e nel male il destino di due intere nazioni calcistiche.
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«Sarà una festa da ricordare, della quale ancora parleranno quando saranno trascorsi molti anni e i suoi principali protagonisti saranno ormai solo nomi legati alla mitologia del calcio» scriveva Mario Vargas Llosa. Ora, secondo la nostra età generazionale, quando definiamo “La Partita” in Italia e in buona parte del resto del mondo si può fare riferimento a due soli casi: Italia-Germania 4-3 a Messico ’70 e Italia-Brasile 3-2 a Spagna ’82.
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Il libro di Trellini è il racconto dei tanti avvenimenti accaduti prima, durante e dopo attraverso anche tutti i protagonisti impegnati ad arrivare a un traguardo comune: Italia Brasile 3-2.
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C’è la storia dell’arbitro israeliano Klein che vive il dramma del figlio impegnato in territorio di guerra. Ci sono l’affetto e la fiducia paterni di Enzo Bearzot per Paolo Rossi, al quale non ha voluto rinunciare dopo quattro partite deludenti e senza neanche un goal. C’è la storia di Socrates, che nel Brasile della dittatura fu uno dei protagonisti della cosiddetta “democrazia corinthiana”. C’è il “quarto” goal di Dino Zoff e infine, ma i protagonisti sono veramente molti, gli occhi rigati dalle lacrime di Josè Vilella, il bambino di 10 anni che rappresenta e racchiude il dramma di un’intera nazione in una tela di tinte verde-oro che svaniscono nel grigiore della tristezza.
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Allo stadio Sarrià di Barcellona sono le 17.15 del 5 luglio 1982, fa molto caldo e l’arbitro Abraham Klein decreta l’inizio di una partita destinata a entrare nella leggenda.
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Italia e Brasile sono le due nazionali più vincenti della storia del calcio e nonostante le divergenze stilistiche sul piano tattico, hanno sempre dato vita a sfide molto entusiasmanti. Certo, a questo incontro le due squadre ci arrivano in condizioni psicologiche e fisiche diametralmente opposte.
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Il Brasile è una vera e propria macchina di gioco e di goal. E’ considerata la favorita assoluta per la vittoria del titolo iridato. Può schierare calciatori come Zico, Falcao, Cerezo, Socrates, Eder, giocatori pieni di talento, capaci di esprimere un calcio virtuoso e armonico, ma allo stesso tempo concreto, spettacolare e vincente.
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Quando il pullman verde-oro giunge allo stadio, è già festa, tutti i tifosi brasiliani sono convinti di aver vinto ancora prima di cominciare. Accolgono la comitiva brasiliana in un’atmosfera di festa anticipata cantando l’inno brasiliano, una marcia trionfale che assomiglia nel ritmo proprio all’inno italiano. Sono tutti convinti che sarà una passeggiata, una formalità. Del resto, l’Italia, che aveva vinto a fatica contro l’Argentina, poi sconfitta agevolmente dal Brasile, non appariva certo un grosso ostacolo. Nessuno, però, aveva potuto prevedere la testardaggine di Enzo Bearzot che anche stavolta si voleva affidare a un giocatore già molto discusso nei mesi precedenti: Paolo Rossi.
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Mai nessuno prima di questo incontro aveva segnato 3 reti al Brasile in una stessa partita. Paolo Rossi aveva scelto proprio quel tardo pomeriggio del 5 luglio 1982 per tornare a essere “Pablito” ed entrare in uno stato di grazia tale da diventare un incubo per la difesa brasiliana tanto da essere, in futuro, considerato il “carrasco” ovvero il boia!
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E non solo, all’ottantanovesimo c’è un calcio di punizione da posizione laterale in favore del Brasile. La nostra difesa deve resistere a quest’ultimo assalto. La battuta è affidata a Eder che, con la forza della disperazione, sventaglia il pallone in area. Oscar lo indirizza deciso verso la porta italiana, ma Zoff vola e in due tempi tiene la palla sulla linea di porta. I brasiliani subito si voltano verso l’arbitro invocando la rete, ma Zoff si alza e indica ripetutamente di no. Lo sguardo di Zoff incrocia gli occhi dell’arbitro Klein e, trattenendo il respiro, attende la decisione del direttore di gara che non assegna la rete.
È una parata memorabile, destinata a rimanere nella storia del calcio. Quel miracolo di Zoff all’ultimo minuto condanna il Brasile e porta l’Italia in semifinale.
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Al fischio finale, mentre esplode la festa azzurra in campo, nelle strade e piazze d’Italia, sugli spalti un ragazzino di 10 anni Josè Carlos Vilella diventerà involontario protagonista assoluto, emblema iconico di un dramma nazionale, tela artistica di elevato spessore emozionale.
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Josè era allo stadio in quel pomeriggio rovente assieme alla madre. Indossava la maglia verde-oro, era il desiderio della vita, vedere il suo Brasile trionfare. Dopo la paratona di Zoff e il fischio finale di Klein, José entra in trance e i suoi occhi si riempiono di lacrime amare. Con il volto impietrito che mostra la delusione cocente, attira l’attenzione di un fotografo brasiliano del Jornal da Tarde di San Paolo che deve cogliere l’attimo, che non può lasciarsi andare a sentimenti improbabili e soprattutto non può lasciarsi scappare l’immagine della delusione più cocente di tutto il popolo brasiliano riflessa negli occhi sinceri di un bambino.
Eppure il fotografo è un essere umano, ha un attimo d’indecisione, deve scegliere tra gli occhi tristi della bella mamma di Josè e quelli intrisi di dolore del bimbo: poi decide, e, senza saperlo, realizzerà una vera opera d’arte fotografica che cambierà per sempre la sua vita.
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Il giorno dopo quella foto occuperà tutta la prima pagina del quotidiano. Mostra José, sul punto di scoppiare in lacrime, che indossa con fierezza la maglietta della nazionale, dopo aver vissuto il dramma ormai consumato, il dramma di novanta minuti di terrore per il calcio brasiliano. Non c’era molto da aggiungere, solo la data su scritta nera, listata a lutto.
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Solo nel 2013 Paolo Rossi e Josè s’incontreranno in Brasile. Il “carrasco” quasi si scusa per essere stato l’inconsapevole colpevole di quel pianto da bambino.
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Piero Trellini è stato veramente bravo, il suo libro si legge scorrevolmente, tutti i personaggi, i fatti e i misfatti, partono da lontano e vanno lontano, come tanti fotogrammi fermati nell’attimo fuggente, si mescolano e sfumano su una tela indefinita.
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Quasi un’opera senza autore, quella dello scrittore, che nasce da una personale istintiva ricerca del vero, da un desiderio autentico di raccontare le vicende e di entrare con rispetto nel cuore grondante di gioia o nel cuore affranto di due nazioni calcistiche che hanno dominato il ventesimo secolo.
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Un’opera che ha sullo sfondo l’immagine di quell’ignaro bambino, espressione di una sottile e proficua inquietudine che sembra costituire un essenziale e non trascurabile tratto identificativo.
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E’ un libro appassionato che conquista il lettore, soprattutto per chi ama lo sport in generale, certo parla di calcio, ma non solo. E’ un bellissimo viaggio, un grande lavoro di ricerca completo di una divertente aneddotica mai fine a se stessa. Da leggere assolutamente.